SULLA ROTTA DEL BARCO L’ARTE DELLA LUCE E DELLE FORME



SULLA ROTTA DEL BARCO
L’ARTE DELLA LUCE E DELLE FORME
di Franco Loi
Quando penso al tempo, non me ne viene nostalgia per ciò che è scomparso, che pure mi inquieta e mi da comunque l’impressione di aver perduto tanta parte di me - forse non “la miglior parte”, ma la più incosciente e gioiosa - e appunto la concretezza di quell’armonia che le cose e gli uomini mi suggerivano, o suggerivano fin dall'infanzia alla cecità e alla speranza - ed ecco, proprio la parola infanzia rievoca in me una pienezza di me, una colma adesione al vivere che farà capire anche di più che il passato mi riporta il dolore di ciò che non sono riuscito ad essere e di ciò che non ho fatto. Cosi il tempo nel ripropormi gli incontri e le persone scomparsi sommuove un rammarico del poco amore e la nostalgia delle occasioni perdute.


E quanto tempo sembra passato da quando ho conosciuto Biagio Marin, e non sono riuscito a stare con lui quanto avrei voluto e dovuto. E sopravviene una punta di rimorso per una lettera che non gli ho mandato, e persino per le critiche che non gli ho fatto. Dunque siamo inferiori a noi stessi, e quindi al tempo.
2. E potrà sembrare strano, se non fuori posto, che io inizi queste mie annotazioni, che vogliono essere più  un diario, un narrare, che non uno scritto d'arte, e tantomeno una pretesa critica, con una riflessione del tutto personale e legata alla memoria di un poeta.
Ma fu Dino Facchinetti a farmi conoscere Biagio Marin, ed è Dino a propormi ora di ripercorrere un tempo, che anche tra noi è trascorso e anche a noi ripropone, con le tante immagini e i diversi momenti del vivere, la nostalgia di noi a noi stessi. E il suo modo di risvegliare la mia memoria non è solo con l'invito a scrivere, ma anche a guardare, a indagare le sue incisioni, i disegni, la sua arte. Perché noi vediamo ora qui pescatori, barche, crostacei, pesci, volti e case di Grado, ma non possiamo guardarli come semplici simboli o oggetti dell'arte: sono cose e persone nostre, momenti delle nostre emozioni, pezzi di vita, vicende, paesaggi, ricchezze del nostro quotidiano trascorrere tra le cose e gli uomini.
3. Così, l'inquietudine di me e dei miei brevi rimorsi, e il ricordo di un caro poeta come Marin, mi fanno entrare di più tra queste immagini. E, più rivado con la memoria, più riporto quel passato al presente, e più mi pare di riconoscere qualcosa di queste figurazioni dell'arte. Vorrei anche che questo mio scrivere potesse riunire, a contraltare degli astuti dei, gli ingenui fratelli che si sono accompagnati nella fatica del vivere o nella ricerca del vero, quanti, poeti, artisti o pescatori o altri umili uomini e coraggiose donne, hanno vissuto la consueta vicenda dell'operare e del sognare.
4. La prima volta che incontrai Dino fu a Milano. Nel farci accomodare a tavola in una trattoria di via Solferino, Giancarlo Vigorelli disse sbrigativamente: “Tu siediti qui, tra me e quel pittore, che è un bravo amico di Biagio Marin”. A me la presenza di “quel pittore” diede subito un senso di solida positività. Come si dice, “mi trovavo bene”. Non mi pare di ricordare cosa mangiammo, né, con precisione, di cosa discorremmo - Marin, pittura, poesia, ecc. - ma ho impressa l'immagine dell'angolo di una saletta in cui ci eravamo raccolti, del tavolo, di noi attorno che diciamo e ascoltiamo, mentre Vigorelli generosamente racconta aneddoti su Rossellini, la Magnani, Gadda, Kruscev, Ciu-en-lai, i tanti interlocutori della sua vita di grande zingaro della letteratura.
Quante volte a Grado, nel magico ristorante di Toni o nella trattoria di Renzo, ci siamo ritrovati ancora, tra noi, o con altri, amici, persone care, a riprendere il rito conviviale, a compiere insieme l’antica cerimonia dell'amicizia e del cibo. Mi meraviglia sempre che gli artisti italiani d’oggi, come tutti gli italiani cosi proclivi alla tavola e alla tradizione del mangiare assieme, non siano invogliati a tentare nell'arte questo tema.
5. Ed è proprio il cibo a richiamarmi l’arte. Ciò che mi sembra essenziale nell'operare di Facchinetti è la capacita di evocazione chiusa nel corpo di un'immagine. Io, che sono un avido consumatore di pesce, in particolare di crostacei e molluschi, mi soffermo su queste granseole, capelonghe, caparossuli, bisati, e non mi sembrano nature morte - come quando si legge una poesia, e, non le parole e i loro evidenti significati, ma i ritmi e i silenzi attraggono, ad altro e suggeriscono associazioni vicine e lontane, producono fantasmi.
Così, ricordo non solo i piatti e i bicchieri, e le bottiglie di pinot, souvignon, malvasia attorno alle vivande, ma le facce, i volti, e le mie solari giornate tra i casoni della laguna o nelle ospitali case di Grado.
Come la volta che, i piedi nel fango e tra le sabbie stagnanti, dietro Anfora, cercavamo caparossuli spiando i due fori nella sabbia tra i tanti buchi di vermi e ragni d'acqua, e, improvviso, un frullo mi ha fatto voltare e, in uno spruzzo d'aria e gocce d'acqua e di luce, un cefalo s’inarcava nell'aria, rituffandosi e saltando allegramente in una pozza di mare. “Giocano sempre” mi ha detto Dino, mentre io guardavo l’ombra del cefalo che ormai sotto il filo dell’acqua filava silenzioso.
O la volta che, sotto il sole da più di un’ora, stanchi per il camminare a mezza gamba nell'acqua, arsi dalla calura e con la schiena a pezzi - naturalmente più io che non il mio infaticabile compagno - vedemmo, al riverbero del sole al tramonto, l'ala di un corcal sfiorare l'acqua verso Sant'Andrea, in un grido disperato, e subito dopo parve cadere l'ombra della sera. Com’era larga l'ala nel quieto dell'aria e come umano quel grido!
Anche qui vediamo un gabbiano e cogliamo tutta l'ampiezza del cielo e l'ombra del tramonto nella sapiente maieutica dell'incisione, nell'ariosa luminosità del segno.
6. Un giorno, poco lontano dalle bianche pietre del Duomo di Grado, ci siamo ritrovati a bere prosecco con Renzo Sanson, e a parlare delle eterne cose di cui parlano gli uomini attorno a un bicchiere di vino, colti dalla semplicità dell'aria, dall'inatteso soffermarsi del tempo, dalla, sempre in agguato ma quasi mai soddisfatta, pigrizia del corpo. Si parlava e ci sfuggiva la percezione del luogo e dell'ora - e mi vergogno un po' di questa frase letteraria, già detta da qualcuno in qualche libro o luogo, anche se non so come dire quel ristare nel tempo senz'altra coscienza che quella del benessere del corpo e del respirare - e si conversava di tante cose diverse come seguendo l'andamento di un verso, i suoni delle parole. Non so chi di noi disse che la scultura e l'incisione sono due modi a cui Dino non poteva sottrarsi. Perché in lui, nel suo stesso corpo, si realizza la fatica del continuo rapporto con la natura, la grave discordanza tra quella che qualcuno ha detto "la leggerezza dell'essere" e la dura opposizione dei corpi, perché tutte le forme si confrontano ed entrano in rapporto attraverso l'attrito, e la possanza di Dino non poteva non forzare l'abbraccio con le cose e 1'esercizio del segno. Non è un caso che pietra e rami e zinco siano più affini alla sua difficile maestria. Appunto la difficoltà e gli spessori delle materie attraggono l'artista. E in questa sua ampiezza di gesto e di accoglimento, se guardiamo all'incisione, ma persino alla pittura e al disegno, ritroviamo sempre la scultura, si ha l'impressione di una totalità che congloba il piano e allude alle tre dimensioni. E ne venne quel giorno di ozio e di leggere parole nel vento anche la percezione di uno sforzo sempre troppo grande rispetto all'impossibilità, non solo di afferrare il reale, che eternamente si allontana appena trascorso e che nell'istante stesso non è nulla più che un'emozione in noi, ma anche di condurre alla presenza scultorea i mezzi della pittura e del disegno. Eppure è proprio questo il fascino del lavoro di Dino: proporre un'immagine che evoca un corpo, e invitare l'osservatore quasi all’uso piuttosto che alla pura visitazione estetica. Le sue incisioni sembrano sempre strappare un corpo al luogo, alla memoria, al tempo per porlo davanti a noi, piuttosto che disegnarlo o imprimerlo sulla superficie di una lastra.
7. Eppure c'è tanta emozione e tanta delicata sensibilità della materia, tanta minuta osservazione dei particolari e precisione di riferimenti, quella delicatezza di sentire e quella riservata emozione di sé  e del mondo che a me rammemorano un altro pomeriggio in laguna, sulla batela che Dino fa scivolare con sapienza tra le acque.
“Oggi non andiamo subito in Anfora...”. E’ per me una gioia lasciarmi cullare dalle onde, stare sdraiato a prua, tra gli spruzzi, la spinta del sole, la brezza che passa sul corpo accaldato, mentre leggero il motore - è cura di Dino tenerlo sempre basso, il meno possibile offensivo all'acqua e alle coste - ronza appena lungo i tapi e i casoni silenti - quante poesie di Marin, quale pulviscolo di fiori, di cinerini colori alla superficie dell'acqua - e così mi lascio portare in canale, tra i corcai coccoli sui pali di direzione, sui cartelli Venezia - Trieste, le barche che passano verso l'interno o verso il mare, spesso estranee, coi loro rumori e le schiume, alla quiete di quelle rive. So che al timone c'è un corpo saldo, che sembra una polena e non si sa mai se sia fatto di sale, aria e sole, o soltanto acqua come tutti gli uomini.
Perché ne parlo? Perché anche di questo è fatta l'arte di Facchinetti, di questa dimestichezza quotidiana con le sue immagini, con i corpi delle sue scultoree presenze, e perché mi piace unire la mia memoria alla sua, le mie alle sue immagini.
Dunque si andava... Anzi, lui “faceva andare”, se mi si passa per ironia la parafrasi dantesca. E, di colpo, non sento più il motore, ma vaghi fruscii e silenzi, quei sciacquii gremiti di brevi leggeri suoni della vita, e che mai ascoltiamo né recepiamo nella distrazione d'ogni giorno, quei silenzi che fan parere la barca ferma e lontani gli orizzonti. “Ascolta”: è un soffio, un respiro lento e continuo, un ritmo di acqua e di brezza: “è la terra, la riva che respira l'acqua”. Lo sento ancora dentro quel fiato della terra, e, altrettanto inatteso e subitaneo, il volo di un airone grigio nell'ampio cielo verso Marano.
8. Fu appunto di ritorno da Anfora, quella sera, o forse un'altra, ci andammo diverse volte, che Dino fece fermare la batela sulla spiaggiona abbandonata in Pampagnola verso il Belvedere. Mezza affondata nell'acqua, la chiglia di una grossa barca, 1'emergere di una carcassa ossea, tra le cui travature si vedeva il cielo e sui cui legni marci stavano, come disegnati o scolpiti, gli attenti gabbiani. Attorno a quel relitto - il brivido della parola relitto mi rammenta appunto, il corpo sfatto di un grosso pachiderma o di un veliero antico, e subito si pensa alle vite animali, ai marinai, alla vita insomma che, come pure la nostra, animava quel corpo e prorompeva energie e suoni e voci - una landa deserta di mota e di acque, brulicante di pesci, valve, conchiglie, crostacei, lombrichi e schie, peoci e arselle, e gazze, e passeri e piccoli corcai saltellanti. Ci girammo attorno a quella chiglia possente e immota - chissà quante volte Dino ci avrà camminato sopra o attorno - e lui m'invitò a guardare. E, non ricordo se allora o qualche altra volta, o forse ogni volta, mi nominò suo nonno.
9. Il nonno di Facchinetti è un mito. Appunto come quella grande barca, una presenza costante. Quando osservate i pescatori dei suoi quadri o delle incisioni o sculture dovreste, come una preghiera, volgere il pensiero al vecchio patriarca. Ne ho sentito parlare tanto che non faccio fatica a vederlo, seduto sulla sua o su quella grande barca, insieme ai figli, fratelli, tutti pescatori - e quando si dice la parola “pescatori” non si pensi ai cacciatori di pesce o agli odierni procacciatori di mercato: il pescatore è un fratello della natura, un amico delle acque e dei pesci, un solitario poeta, e come tutte le creature della terra soltanto per fame sceglie la cattura del pesce, sapendo di compiere un rito e di rispettare le leggi della vita e della morte, della sopravvivenza. Il nonno di Dino, come tutti gli uomini che esercitano l'intelligenza e 1'emozione nei mestieri, era saggio e dava cultura al paese.
Quando parla di suo nonno, il pittore diventa serio e silenzioso - la parola si fa rada e sembra che l'artista sia più intento a rimeditare che a dire. “Mio nonno parlava poco”, “Aveva gli occhi buoni...”, “Sapeva governare ogni barca...”, “Per un rimprovero, bastava uno sguardo ...”, “Quando dissi che volevo dipingere e i miei non volevano, sta bon” disse, “ci penso io ...” “Fu così che continuai l'arte …”  Al tempo della necessità, della povertà e del lavoro, appartiene la figura che l'artista fa rivivere nella mia coscienza. Anche i volti che ora sta cercando di rievocare sulla lastra o sulla pietra sono nati nell'amore per il vecchio pescatore, e sono volti che per Dino fanno tutt'uno con la pietra di Grado, e le sue acque, i suoi pesci, gli uccelli che portano ovunque il grido di antiche presenze.
10. Ebbene se osservate con attenzione queste barche investite dall'acqua e dal vento, non per sola suggestione retorica, ma per naturale completamento d'immagine si possono rievocare gli uomini che un giorno vi lavorarono e le innumerevoli ascendenze di un artista che dell'arte e del faticare in laguna fa una ragione di vita.
E qui vorrei accennare allo stile di questi lavori. Ho già detto della scultura. Ma vorrei dire della luce e dei segni. Non c'è mai paesaggio dietro le figurazioni di Facchinetti - qualche volta reti. Perché il paesaggio è dentro l'immagine, nell'apparire stesso delle cose e delle persone che appartengono a quel presagio, e in cui stanno come espressioni, fatte e distrutte o costruite da quel mondo. I segni son perciò forti e tali da dare spessori, e le luci sono dentro le materie, più un loro respiro che un alone o una gradazione di toni. Se si vuole cercare dei riferimenti d'arte, si guardi alla tradizione friulana, antica e contemporanea. Una grezza decisione del gesto, a evidenziare la potenza dell'apparire delle cose - oltre quel naturale antropoformismo che fa riversare l'indole e l'immagine dell'autore sull'opera - e poi il porsi perentorio degli uomini, 1'evidenza del loro ruolo rispetto alla natura. Inoltre una quasi archeologica coscienza della luce.
Facchinetti sa che “la luce risplende nelle tenebre” e oggi lo sa anche la scienza sperimentale, se pensiamo agli elettroni e ai quanta di luce. Si capovolge un modo di guardare alla realtà e alla natura della luce. Dal barocco e dalla tradizione manierista per cui la luce cadeva dal di fuori sulle cose - il paradigma era la luce del sole - l'uomo d'oggi non può non prendere atto delle più antiche intuizioni: la materia non è che forma e la luce vi è racchiusa dentro. Certo, sappiamo anche della pioggia astrale, ma conosciamo i fotoni di luce. E' una strada aperta all'arte contemporanea, di cui gli artisti non hanno forse coscienza, ma di cui alcuni sperimentano già la realtà formale. Ricordo che in occasione di una grande mostra a Firenze dello straordinario pittore praghese Mikulas Rachlik, fu proprio lui a parlarmi per la prima volta della luminosità intrinseca dei colori e delle materie e dello sforzo di agevolare 1'espressione della luce in un quadro.
11. E un nostro comune, grande amico, Eugenio Tomiolo, ci ha più volte parlato della “forma formante” e della “luce che crea luce”. La sua ricerca costante ha attraversato il Novecento e l'ha indotto, lui, veneziano e pittore per natura e per voce, alla poesia, al mistero della parola.
Qualche anno fa, con Tomiolo siamo andati in barca verso Anfora, e a me scappò detto: “E' difficile cogliere la luce sotto questa luce”. Ma lui replicò: “Anzi, è un invito, quello del sole e del giorno, a cercare la luce che si sprigiona dagli esseri ... Si, anche la luce nasconde la luce ma ne offre la possibilità ...” Ebbene Facchinetti incastona i suoi oggetti, siano pesci, barche, case, in uno spazio vuoto i cui segni sollecitano la luce. Non inganni la corporeità delle figure: 1'evidenza delle forme è necessaria, è il sacro vincolo delle cose. Ancora Tomiolo, anni fa, osservò: “La mela di Cezanne è un gioco intellettuale. Non è vero che una mela sia un cerchio. Bisogna provarsi a raggiungere la forma di una mela, non una circonferenza o una macchia di rosso. Il difficile è fare una mela, ed è un dovere e un bisogno per un artista immergersi in questa difficoltà”. E in un'altra circostanza aggiunse: “Bisogna rispettare le forme e agevolare la loro espressività. Non 1'espressionismo, non la deformazione, ma il loro messaggio di luce e la loro apparenza, che si chiama rivelazione”.
Le incisioni e le sculture di Facchinetti tentano questa strada. Non giudichiamo solo dai risultati. Una ricerca è sempre benedetta dagli errori e il lavoro dalla modestia dei risultati rispetto alla superbia degli intenti. Qui abbiamo già alcuni straordinari esempi di quanto cerco di delineare. Interessante è l'orientamento.
12. Mi accorgo che spesso ritorna Anfora in questi racconti attorno all'arte di un Pittore. Quell'antica isola all'estremità occidentale della laguna di Grado ha per me un fascino particolare. E credo che anche per l'arte di Dino sia un luogo importante, come se la Grado scomparsa, l'amata isola dei pescatori e delle case di pietra, ormai divenuta città e unita alla terra, rivivesse in quella povertà e in quel suo naturale lambire il mare con le erbe, gli alberi, le sabbie, le strisce paludose, a riproporre la solitudine dell'uomo e le quotidiane fatiche.
C'è qualche rettangolo di casa - una era una scuola negli anni '30 - e in una di queste basse costruzioni un maestro pescatore e la sua famiglia preparano pesce e somministrano vino di laguna ai rari villeggianti che d'estate approdano all'isola. Piero, la Nina, Mauro, Lidia, i ragazzi sono gli ospitali feaci di questo luogo che, non Ogigia, Itaca o la scogliosa Ea rammentano, ma certo i sapori e la luce dell'Adriatico e gli umori benefici di una terra doviziosa e dolce come la friulana. Bisogna sentirlo, almeno una volta, Piero raccontare della sua vita e delle sue esperienze di pesca, dei suoi dialoghi con il mare, per capire quanto, insieme alla memoria del grande nonno, tutte le forme che ammiriamo nell'arte di Facchinetti siano alimentate da conoscenze di lavoro e di vita, dalle piccole misteriose storie della laguna, dalle albe passate tra le acque, le passere accolte tra le mani, i cefali indovinati alle rive dei tapi, i bisati avvolti nelle reti, e i gabbiani, i corcai delle poesie di Noventa e di Marin, che come nella vita e nelle poesie di Ligio Zanini, parlano con gli uomini e indicano i punti del navigare e le minacce delle nuvole, e poi queste forme ci parlano di cura delle barche, del rispetto verso gli animali, di sapienze nei mestieri nautici, di reperti fossili e di volti umani scolpiti nell'aria e nella luce. Anfora non è dunque invano tra queste pagine. Ne è, anzi, la matrice nascosta, il teatro delle forme cui noi siamo introdotti dall'arte.
13. Prendiamo dunque i piatti di sarde o di canoce.
La pittura e l'incisione italiana hanno spesso affrontato questa immagine. Ricordo ancora Tomiolo, De Pisis, Viani. Ma a me viene un nome sicuro: Luigi  Bartolini. Questi tondi a me suggeriscono la medesima intensa poeticità, la stessa capacita di evocazione. Anche se, come ho già detto, in Facchinetti il senso di isolamento e di presenza in tre dimensioni dell'oggetto sia molto forte. E voglio anche aggiungere il nome di un altro eccezionale pittore e incisore di questa nostra straordinaria Italia, che, pur nel dolore e nella tragedia, pur nell'indifferenza dei ricchi e dei potenti, continua a promuovere arte e poesia, genio creativo: intendo alludere a Giancarlo Vitali, un altro figlio di pescatori, sia pure di lago, che vive a Bellano sul Lario e che fa del suo lavoro sulle forme un unico amore per il paese, il lago, la gente.
Il lavoro di Facchinetti va in questa direzione. Pochi segni decisi, che danno ampiezza e chiarezza agli spazi, pienezza dell'oggetto, luminose tattilità alle squame morte dei pesci, spinosa evidenza dei crostacei, ruvida imponenza delle barche. Ricordo le prime incisioni di Dino, in occasione di una sua grande mostra di scultura a Grado. Le marionette, i teatrini tra le sghembe case del borgo, e gli uomini delle osterie dalle braccia poderose e le teste curve sui tavoli, le mani nodose ad aggiustar reti o ferme ai gotti di vino. Credo che ora l'incisione si sia fatta più intensa, il disegno più sicuro, l'immagine più essenziale. L'artista sta sempre più penetrando l'uso del mezzo e la libertà delle proprie immagini.
14. A questo proposito voglio citare un'osservazione di Giacomini, in occasione della visita a un nostro grande amico pittore, Francesco Bierti, un'osservazione che forse mi fu fatta anche molto tempo prima dal poeta Giulio Trasanna: “I friulani di monte amano i colori, quelli di mare il disegno …”. Non so quanto sia vero, voglio dire sia un assioma generale, ma è certo opportuno se togliamo la parola friulano, per tanti artisti che hanno lavorato in Versilia o a Venezia - sembra quasi che la opacità della terra esalti i colori, e la leggerezza delle acque cerchi le linee. Non si può dimenticare che gran parte dei grandi pittori veneziani proveniva dalla terra - anche se poi Venezia fa storia a sé tra le città di mare.
Mi si perdonino queste piccole provocazioni alla fantasia. Ma l'arte di Facchinetti è molto più attratta dal chiarismo in pittura e dal segno essenziale e luminoso nel disegno che dalla vivacità dei colori e dalla descrittività del segno. Ne parlavo appunto in questi giorni con Ernesto Treccani, un fervido estimatore dell'artista, e convenivamo che più la materia oppone ostacoli - pietra, rami, zinco - più l'anima di Dino viene sollecitata, e che, come nell'uomo, balza agli occhi una grande generosità nel guardare queste immagini cosi tenacemente ricavate dalla materia.
15. Vorrei ora chiudere questi miei amichevoli conversari con un ricordo e un'annotazione. Un giorno Dino mi ha portato con la batela a fare il giro completo dell'isola di Grado. Era un giorno caldo, di mare calmo, foschia di calura. Dopo aver passato Barbana, e aver fatto visita ad amici valligiani, e tra questi lavoratori delle acque e dei campi, questi custodi della laguna e della pesca, mi piace ricordare Bastiano, col quale abbiamo bevuto fresco vino e mangiato pane e frutti, siamo andati verso le foci dell'Isonzo e usciti in mare. Sulle spiagge le immobili garzette nell'aria ferma, le garzette che poi guizzano improvvise e sembrano scivolare sull'acqua, rapide, protese in avanti, per fermarsi di nuovo al filo dell'orizzonte, scolpite nella luce; i radi corpi dei bagnanti, dorati e scialbi nel chiaro della sera all'imbrunire: qualcuno gioca con la palla, qualcuno passeggia, donne raccolgono conchiglie o cercano caparossuli tra le secche delle rive; gabbiani sbattono le ali sopra di noi, e sembrano seguire il filo del sole che è ormai oltre Venezia, tra le terre venete; alle nostre spalle Trieste e l’Istria, che, mi dice Dino, nei giorni limpidi si vede come fosse da toccare, e di fianco si apre il mare, l'Adria età, come ho scritto in Teater. Ma è verso Grado che noi andiamo, verso la parte più antica del borgo, ed ora vediamo la casa di Marin e i campanili, ben oltre l'orrore dell'albergo sulla passeggiata a mare.
“Sembra d'oro, ma è fatta di pietra e travi, e un tempo forse galleggiava sul mare...” nel guardare Grado, certo senza saperlo, il pittore diceva qualcosa che ha vasti echi nella letteratura italiana, evocava l'isola che vaga nel Mediterraneo dei poemi cavallereschi, e nella satira del Baldus. E sembrava davvero una grande nave, Grado, vista dal mare oltre il Forte e le vecchie case di San Ermacora e Fortunato, una nave attorniata dai gabbiani e inseguita dalla luce del sole. “Pase doragia de la sera / boca che stende biava / l'ultima bava / co' lisiera maniera.”
16. E nello studio ci sono andato una delle prime volte che sono venuto a Grado. Non si può immaginare nulla di più inadatto al lavoro di un artista come Facchinetti - per l'angustia degli spazi e la scarsità della luce, per l’impossibilità di portarvi le grandi pietre o progettare gli ampi lavori, per la precarietà delle strutture - eppure di più simile alla riservata misantropia del pittore, il suo volersi appartare per meditare e provare l'arte. Sembra quasi che nel buio di quelle quattro pareti, in quel budello sotto i tetti del borgo egli voglia chiudersi per raccogliere tutti gli spazi e la vastità di luce della laguna e del mare. Dalla calle del Corbatto si salgono gli scalini a picco e poi si arriva in un solaio lungo e stretto, nemmeno tanto lungo, e ristretto dai vecchi mobili gremiti di oggetti, di conchiglie, disegni, fiori secchi, spille, libri, piccoli scrigni di legno, statuine, monete di rame, d'argento e scatolette di cartone, vasetti di ceramica o di vetro, piccole anfore, sassi e palline colorate - e dappertutto disegni, incisioni, foglietti spillati con brevi pensieri, frasi sentite, aforismi dai libri, versi di poesia. Appena su dalla scala, non si fa a tempo a fare tre passi che si è già nel minimo vano ricavato da una tramezza e alla finestra a piombo sul vico, dove c'è il torchio. “Sogno sempre un grande studio e di camminare per lavorare e avere grandi pareti per le tele o per metterci contro le mie grandi pietre da scolpire... Ma poi mi pare di volergli bene a questo mio buco, qui, nel cuore di Grado, nel ventre del borgo... Certo, non ho luce, non ho aria, gelo d'inverno, soffoco d'estate... Ma me lo sono fatto con le mie mani, ci ho portato su il torchio, l'ho riempito della mia vita... E poi ho sempre la batela”, e, come scrive Marin: "Fra noltri e Dio / continuo un zuogo / d'aqua e de fogo, / de tonba e de nio ....”.
E qui voglio finire con uno sguardo a queste belle incisioni, e una per tutte: il gabbiano, il corcal colle ali distese. Questo sì che è un simbolo: è facile la metafora: “Paese mio, / picolo nio e covo de corcali...”: l'uomo che vorrebbe volare, il paese che lo accoglie nel nido. Ma voi guardatene la leggerezza, questo piccolo corpo fatto di piume, e gli occhi intelligenti dorati che guardano gli spazi da cui vengono luce e aria, e minacce d'uccelli e il sogno del cibo. La misura che gli dà l'artista è però altra e significativa: le ali si allargano in un gesto di inerme arresa alle ragioni del vento, e c'è una certa severità, una severità che fa pensare, nel piccolo capo appena piegato di questo uccello: è una creatura che chiede a quelle che un altro poeta, Tolmino Baldassari, ha chiamato le “chiavi dell'aria”, il segreto della propria e dell'umana sorte. Ebbene tutta l'arte di Dino parte da questa premessa e finisce in questa domanda. Ed è per questo che lui sente di dover tenere riuniti in questa vicenda, che tutti coinvolge, Grado, la laguna, gli amici, gli avi, le acque, le cose, le creature tutte che gli offrono le forme e lo invitano all'antico rito dell'arte.